Silenzio dell'immagine
"No Hay Banda". Il motto lanciato da un illusionista
del suono, sull'avanscena del "Silencio" - il teatrino karaoke dove
vengono a trovarsi (e ritrovarsi, cioè perdersi giusto per quel punto di
passaggio) le protagoniste di Mulholland Drive nell'ultima
vertigine lynchiana, - rimanda, suppongo, ad almeno tre ordini di senso.
La "banda" è di sicuro l'orchestra, che - appunto - "non c'è", ma il cui
suono (scomposto in quello dei suoi differenti ottoni) irrompe sul vuoto
della scena, a un ordine di quello; ma anche, è la banda magnetica, o
ancora meglio il nastro, il cui suono si riverberava inverso nella sala
rossa del submondo di Twin Peaks (qui, lo stesso dèmone nano
appare, microfonato da una grande porta di cristallo, nelle cortine di una
megasala su cui luci stampano gotiche ogive, ed è un metafisico produttore
cinematografico, pigmalione del mondo inferiore, deciso a imporre la sua
starlette); e infine, forse, è la "banda" di frequenza, in grado di
trapassare lo spazio, e mettere in comunicazione mondi gli uni agli altri
invisibili. Giusto là, nella Hollywood scenario (esponenzialmente) del
film, là dove tutto è immagine, e ogni realtà nasce votata al mulinello
delle apparenze - là dove vite ruoli identità si scambiano ed invertono
come su uno specchio invisibile e sfalsante, o una tela di celluloide su
cui i simulacri diventano viventi - là, ogni cosa è suono, e il suono è
playback; ma appunto: il suono non proviene da nulla, non s'incide su
nulla, e non dà segnale. Parte, e torna, invertendosi nel rumore in cui si
azzera lo Spettacolo: quel silencio capace d'ingoiare ogni immagine
attraverso il buco nero d'un microfono deserto. Se la scena del "Silencio"
mi ritorna così forte mentre leggo un saggio in cui Pellini splendidamente
ripercorre quel topos del perturbante "gothic" e "fantastique" in cui le
immagini dipinte prendono vita (e si staccano dal quadro - attentano
all'integrità degli esseri "reali" che vi s'imbattono - e minacciano,
infine, di "sostituirsi" alle creature che ritraggono), è anche perché
giusto nell'animarsi di due "quadri" si trova, qui, su e giù da
Mulholland Drive, il punto vero di scambio: quello snodo per cui è
il simulacro (ormai staccatosi del tutto dal suo modello) a fondare
identità nel "reale". Vorrei citare almeno il primo dei due casi; e si
trova nella scena-chiave in cui, di fronte allo specchio, la bruna -
perduta la memoria a seguito di un incidente - decide di chiamarsi "Rita"
giusto scorgendo sullo specchietto più piccolo, quello del trucco, e
rovesciata, ecco, la Hayworth e il suo nome sulla locandina di
Gilda. Al tempo in cui il simulacro è divenuto il proprio movimento
(image-mouvement, impressa su celluloide o trasmessa su onde
elettromagnetiche), e ha preso per sempre il sopravvento sull'"originale",
il libro di Pellini ci riporta alla radice di questo scollamento tra
immagine e realtà, e al "paradosso di un realismo animato (animistico)",
di un'apparenza talmente "veritiera" da diventare essa stessa la "realtà".
Ed è giusto qui, che Lynch, ultimo prometeo (ultimo fantastique), spegne
il contatto, e ci riaccende altrove.
|